Brueghel da dimenticare

In mostra al «Chiostro» opere della dinastia fiamminga tra XVI e XVII secolo. E un Bosch da gennaio. Esposti 100 pezzi quasi tutti di collezioni private.
ROMA – Per un minimo di coerenza non si potrebbe/dovrebbe parlare di Bellezza e organizzare mostre d’arte se poi si accoglie pubblico e stampa in quel che sarebbe e resta, sì, un meraviglioso Chiostro rinascimentale, capolavoro di civiltà innanzitutto, ma deturpato (e non è una novità) da un tendone di simil plastica per… coprirlo!

No, niente cielo aperto, niente grazia e armonia cinquecentesche, niente scritte in latino intorno: quel che si vede è solo ferri e tubi fissati a terra, «che – viene spiegato da chi gestisce e promuove il
tutto – non sono permanenti ma servono per gli eventi , domenica sera c’è stata una festa vip di preapertura della mostra». Va bene, lo spazio è privato (o meglio, del Vicariato di Roma, ma affittato da anni a una società non nuova a questo tipo di «tensostrutture», società, la Dart Chiostro del Bramante, che poi puntualmente scrive ai giornali per lamentarsi che sono state scritte inesattezze e banalità, rivendicando i suoi numerosi lustri al servizio della «cultura»). Ma a norma di leggi e regolamenti le soprintendenze competenti dovrebbero comunque impedire tutto ciò e vigilare. E non si sa perché non lo facciano, permettendo invece simili scempi, sia pur «temporanei», «non
fissi» o per «eventi»; un qualcosa che molto difficilmente potrebbe accadere in altri paesi civili del mondo.

Poi c’è la mostra, l’ultima inaugurata, lunedì: un’esposizione che rappresenta una sorta di manuale di tutto ciò che una mostra non dovrebbe essere, a partire da quel titolo roboante e acchiappa-pubblico: «Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga». Ma quali meraviglie: le meraviglie dei Brueghel (dinastia di pittori tra XVI e XVII secolo) sono (rimaste) nei grandi musei del mondo (Kunsthistorisches , Louvre, Metropolitan, Prado…) e nessuna di queste istituzioni risulta tra i prestatori.

Solo tre pezzi tre provengono da musei (Capodimonte, Gerusalemme, Tel Aviv), il resto, su un totale di circa cento quadri, tutti provengono da fondazioni e collezioni private (molti da una galleria privata di Torino). Vero è che ormai conta più la comunicazione e che il pubblico, che certamente correrà in massa (la mostra, curata dall’ex assessore alla Cultura di Como Sergio Gaddi, Pdl, e da Doron J. Lurie del museo di Tel Aviv, già vista a Como in estate, fece il gran pienone) crede soprattutto a quella (e nel comunicato ufficiale dell’esposizione si dice di tutto: che si tratta di rassegna «organica» e «completa», che le opere provengono da «importanti musei nazionali e internazionali» ecc.); vero pure che alcuni quadri sono belli, rappresentano alto antiquariato e arrederebbero bene magioni prestigiose. Ma è possibile che progetti e operazioni legittimamente commerciali, che non sono una mostra (non c’è studio , né ricerca , né comitato scientifico di esperti di pittura fiamminga) e che nulla hanno a che vedere con la cultura, si avvalgano, per dirne una, di un partner istituzionale come «Roma Capitale»?

Edoardo Sassi

CORRIERE DELLA SERA – 18 dicembre 2012

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